Segretari comunali e ruolo unico

Segretari comunali e ruolo unico

Messaggioda Moderatore Tutto PA » 03/09/2015, 9:30

Secondo quanto previsto dalla riforma Madia, i segretari comunali e provinciali confluiranno nel nuovo ruolo unico dei dirigenti degli enti locali; a queste nuove figure spetteranno i compiti di attuazione dell’indirizzo politico, di coordinamento dell’attività amministrativa, di direzione degli uffici e di controllo della legalità.

Tuttavia, per agevolare il passaggio alla nuova normativa, è previsto un periodo di passaggio di tre anni in cui saranno valide alcune regole transitorie.

Ecco le principali norme riguardanti gli ex segretari:
• Gli enti locali privi di direttore generale devono conferire l’incarico ai segretari comunali già iscritti all’albo.
• Gli enti locali sono tenuti a nominare un dirigente apicale per sostituire i segretari e in capo a questi dirigenti, qualora ne abbiano i requisiti, deve essere mantenuta la funzione rogante.
• L’accesso al ruolo unico degli enti locali avverrà tramite corso-concorso e concorso, ma l’assunzione a tempo indeterminato sarà possibile unicamente previo superamento di un esame di conferma dopo i primi tre anni di servizio.
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Re: Segretari comunali e ruolo unico

Messaggioda ivano » 03/09/2015, 11:54

A parte il fatto che, come già scritto da altri,
" rimane inspiegabile come funzionari selezionati su base nazionale, tuttora dipendenti del Ministero dell'interno possano ritrovarsi - da un giorno all'altro - nel ruolo dei dirigenti degli enti locali" ,
la legge in oggetto non potrà che peggiorare la situazione in quanto l'art 11 consente agli enti locali una gestione sempre più carente di controlli di garanzia e legittimità ed il risultato non potrà che essere l'aumento delle irregolarità .
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Re: Segretari comunali e ruolo unico

Messaggioda ivano » 03/09/2015, 12:41

MASSIMO PERIN
(Consigliere della Corte dei conti)

Alcune brevi riflessioni sulla responsabilità degli organi politici, anche alla luce di quanto previsto dalla legge 7 agosto 2015, n. 124 (legge-delega di riforma della P.A.).

Nel primo titolo della massima è ripreso il principio espresso dai giudici della Sezione Lombardia dove si rammenta che, secondo la consolidata giurisprudenza della Corte dei conti, la colpevolezza degli organi politici che hanno adottato i provvedimenti ritenuti forieri di danno, non raggiunge la gravità perseguibile soltanto quando gli stessi abbiano assunto le contestate decisioni sulla base del parere di un organo tecnico.

Questo principio risponde ai criteri di separazione tra l’attività d’indirizzo e controllo e quella di gestione, criterio presente anche nello stesso ordinamento comunitario, attraverso il criterio della ripartizione precisa delle competenze, dove il principio di separazione delle funzioni tra organismi pubblici è sempre ricordato, perché utile all’efficienza, alla trasparenza e all’imparzialità, tenuto conto che la separazione delle funzioni è necessaria per il completamento di criteri quali l’autonomia e la responsabilizzazione.

Si deve tenere in conto che per l’ordinamento comunitario i cittadini europei hanno diritto ad una buona amministrazione, perché le questioni che riguardano loro devono essere trattate in modo imparziale ed equo ed entro un termine ragionevole dalle istituzioni, organi e organismi dell’Unione (cfr. Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, – 2007/c 303/01); ebbene, fondamentale per la buona amministrazione è la corretta ripartizione delle competenze e, giustamente, a tutela del principio d’imparzialità (indispensabile per la buona amministrazione) è necessario che gli organismi politici non si ingeriscano nella gestione amministrativa.

A questo punto, una volta fissati gli obiettivi e i programmi da parte dell’organo politico, spetterà alla dirigenza svolgere l’attività di gestione, mentre tornerà nuovamente all’organo politico il compito di verifica e di controllo dei risultati raggiunti dalla dirigenza.

Con questo principio di separazione tra politica e amministrazione, la politica spetta agli organi di governo (governo nazionale, consigli regionali, giunte e presidenti o sindaci a livello regionale, provinciale e comunale), mentre l’attività amministrativa compete ai dirigenti.

Normativamente il criterio della separazione tra politica e amministrazione si rinviene nella legge dell’8.6.1990 n. 142, la quale all’art. 51 comma 2, sanciva la distinzione tra politica e gestione precisando che, in base ad essa: «spettano ai dirigenti tutti i compiti, compresa l’adozione di atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, che la legge o lo statuto non riservino espressamente agli organi di governo dell’Ente».

In seguito, con l’art. 3 del D.Lgs. 3 febbraio 1993 n. 29, il predetto principio è stato esteso a tutte le pubbliche amministrazioni, conseguentemente si stabilisce che «gli organi di governo definiscono gli obiettivi ed i programmi da attuare e verificano la rispondenza dei risultati della gestione amministrativa alle direttive generali impartite».

Allo stesso modo, il criterio della separazione si rinviene anche nel D.Lgs. n. 165 del 2001 riguardante il lavoro alle dipendenze di tutte le pubbliche amministrazioni (artt. 4 e 14).

Infine, nel T.U.E.L. il principio di separazione tra la responsabilità d’indirizzo e controllo politico amministrativo e la verifica dei risultati, posti in capo agli organi politici e attività gestionale amministrativa finanziaria e tecnica attribuita ai dirigenti, è richiamato all’art 107, comma 1.

Dalle norme richiamate, ma anche dalle diverse iniziative di riforma o miglioramento della pubblica amministrazione, la distinzione tra indirizzo politico amministrativo da un lato e attività gestionale dall’altro, è abbastanza netta e in corso di ulteriore accentuazione; semmai, il problema riguarda la possibilità rendere effettiva la distinzione (cfr. Salvatore Bianca, come dopo richiamato nei documenti correlati), liberando – cosa tra l’altro non sempre facile – la gestione amministrativa dalla pressione politica, spesso invasiva.

Conseguentemente, per scelta legislativa e in ossequio ai criteri d’imparzialità, gli organi di governo definiscono gli obiettivi e i programmi da attuare e verificano la rispondenza dei risultati della gestione amministrativa alle direttive generali impartite, mentre ai dirigenti, responsabili della gestione e dei relativi risultati, spetta in generale la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa, compresa l’adozione di tutti gli atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane e strumentali e di controllo.

Ebbene in questo quadro normativo abbastanza chiaro, sul quale sia la giurisprudenza amministrativa, sia quella contabile di responsabilità, sono coerenti con il disegno legislativo e nelle proprie decisioni, fissando correttamente i confini tra amministrazione e politica, il legislatore ha ritenuto di intervenire ancora con la legge 7 agosto 2015, n. 124, contenente le deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche, prevedendo all’art. 11, lettera m), la «ridefinizione del rapporto tra responsabilità dirigenziale e responsabilità amministrativo-contabile, con particolare riferimento alla esclusiva imputabilità ai dirigenti della responsabilità per l’attività gestionale».

Questa norma che sarà la fonte del successivo decreto governativo delegato, nasconde una certa ambiguità se non addirittura il sospetto di essere stata inserita per mandare indenni gli amministratori politici quando s’ingeriscono pienamente nelle scelte amministrative dell’ente pubblico.

La giurisprudenza della Corte dei conti, quando afferma la responsabilità amministrativa di un sindaco o di un organo politico valuta sempre il grado di coinvolgimento di quest’ultimo nell’atto di gestione e la responsabilità viene affermata soltanto quando l’organo politico è il vero attore della malagestione, perché i dirigenti o si erano opposti all’atto o erano stati pretermessi.

Prevedere nella legge delega che la responsabilità amministrativa sia solo ed esclusivamente imputabile ai dirigenti non convince, perché nella norma doveva essere indicata anche la possibilità di opporsi da parte dei dirigenti (senza subire ritorsioni) alle direttive politiche quando queste sono (come spesso avviene) illegittime e foriere di spreco finanziario, perché dettate da scelte di clientela politica (o addirittura da finalità illecite).

Appare probabile che il disegno di questo legislatore sia mosso dall’intento di salvaguardare l’interesse politico di non sottoporre a responsabilità patrimoniale (che poi è sempre limitata al dolo e alla colpa grave) gli attori della scena politica, anche quando sbagliano e sprecano inutilmente le risorse tratte dai tributi versati dai cittadini.

Se il decreto delegato dovesse esprimersi in questo senso (immunità patrimoniale politica e responsabilità esclusiva solo per i dirigenti), la violazione dell’art. 28 della Costituzione è evidente, perché, come affermato dalla dottrina giuridica, questa norma ha avuto il merito di infrangere il principio d’immunità dello Stato che si traduceva nell’affermazione che la p.a. (con i suoi agenti) non può commettere un illecito.

L’art. 28 prevede la responsabilità diretta dei funzionari e dei dipendenti pubblici per gli atti compiuti in violazione dei diritti dei cittadini, affiancata alla responsabilità civile dello Stato e degli Enti pubblici.

Quando il pregiudizio arrecato ai cittadini è stato risarcito è necessario, in via di rivalsa, accertare le responsabilità (limitate sempre al dolo e alla colpa grave) dell’autore della condotta dannosa, affinché gli effetti patrimoniali di essa non siano solo e sempre a carico della collettività.

In egual maniera, quando l’agente pubblico arreca un danno all’amministrazione (sprechi, illegittimità dannose, fatti illeciti, ecc…) è necessario accertare le responsabilità, con le conseguenti misure patrimoniali, nei confronti di chi ha dato corso alle condotte pregiudizievoli.

Non è costituzionalmente pensabile che una parte pubblica (l’organo politico) possa arrecare danni alla collettività, imputando la responsabilità solo a chi ricopre una carica dirigenziale e non ha avuto nessuna condotta in rapporto di causalità con la gestione che ha prodotto quel danno.

Un conto è garantire al personale politico un’immunità per le funzioni alte dell’agire politico (es. immunità parlamentare per la funzione legislativa o quella normativa e di controllo nelle assemblee elettive), perché esiste l’interesse dell’ordinamento di garantire al personale politico la serenità civile, per evitare possibili strumentalizzazioni delle funzioni giudiziarie a fini di costrizione e/o minaccia.

Diverso è garantire, invece, l’impunità assoluta per danni finanziari arrecati in attività di gestione attraverso azioni illegittime e illecite.

Una configurazione di questo tipo diventerebbe un altro odioso privilegio, perché si consentirebbe l’arbitrio amministrativo, dove il personale politico non rischierebbe nulla dal punto di vista patrimoniale, anzi scaricherebbe la responsabilità sul personale burocratico, il quale si troverebbe pure a dovere pagare danni per azioni amministrative non volute e casomai solo subite attraverso pressioni, probabilmente anche minacciose (es. rimozione dall’incarico, forme più o meno occulte di mobbing, ecc…).

Eppure l’ordinamento ha già previsto tutta una serie di garanzie per lo svolgimento sereno delle funzioni amministrative da parte degli organi politici, quali l’insindacabilità delle scelte discrezionali (quando non irragionevoli e, dunque, non viziate da eccesso di potere), la limitazione della responsabilità solo al dolo e alla colpa grave, potere di riduzione degli addebiti, intrasmissibilità del danno agli eredi, salvo l’indebito arricchimento, ecc…).

Ovviamente, tutto ciò non basta se questo legislatore ha ritenuto di inserire una norma di questo tipo, probabilmente perché qualcuno vuole fare amministrazione attiva senza rischiare nulla, scaricando, così, la responsabilità su altri.

Eppure, questa linea di nuove forme di (ir)responsabilità contrasta con la regola costituzionale del «buon andamento» della pubblica amministrazione, perché la lettura di questo principio oggi stabilisce che le risorse pubbliche siano spese proficuamente in relazione agli obiettivi prefissati e, di conseguenza, non si devono sprecare (ancora in questi giorni la Corte Costituzione ha ribadito tale lettura del principio in parola, (cfr. la sentenza n. 188 del 24.7.2015).

Si può avere il rispetto del buon andamento e del diritto ad avere una buona amministrazione quando chi decide spese irragionevoli, illegittime e illecite, si chiama fuori dalla responsabilità patrimoniale, trasferendola (come vorrebbe la norma in parola) ad altri.

In questo senso, induce altro sospetto che l’intenzione di questo legislatore sia solo quella di salvaguardare l’organo politico dalla responsabilità, l’abolizione della figura del Segretario comunale e Provinciale stabilita all’art. 11, comma 1, punto 4 (cfr. abolizione dei Segretari comunali, http://www.segretaricomunalivighenzi.it ... liveri-3-1).
La norma in parola è assai scarna, essa stabilisce in modo freddo l’abolizione di questa figura, la quale dopo la quasi totale abolizione dei controlli presso gli enti territoriali era l’ultimo freno all’illegittimità amministrativa e ai rischi della corruzione.

Le funzioni svolte dal Segretario saranno attribuite alla Dirigenza dell’ente locale, proprio a quella che dovrebbe farsi carico della responsabilità degli organi politici.

È doveroso ricordare che autonomia di gestione significa anche responsabilizzazione della funzione, perché con le gestioni pubbliche si utilizzano le risorse di tutti e la collettività, proprio per la regola del buon andamento e della buona amministrazione, chiede di essere tutelata dallo spreco e dalla malagestione (oltre che dai tantissimi illeciti penali di cui tutti i giorni i media ricordano l’esistenza e la frequenza, specialmente negli enti territoriali).

Si deve ora solo sperare che la lettura della norma da parte del legislatore delegato si attenga ai principi della giurisprudenza contabile e amministrativa (come quello ricordato nell’odierna sentenza) e non vada oltre, per cercare nuove forme d’impunità/immunità, dove lo scardinare le regole viene codificato, specialmente in un momento storico come questo, dove nella pubblica amministrazione si assiste, quasi ogni giorno, a illeciti e sprechi non più sostenibili per una sana economia moderna.
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Re: Segretari comunali e ruolo unico

Messaggioda Mamurio Lancillotto » 03/09/2015, 16:11

Mi viene in mente la frase diTancredi nel "Gattopardo" di Tomasi diLampedusa che diceva del nuovo regime savoiardo : bisogna cambiare tutto perchè le cose restino come sempre.
Come è vero in Italia, tanti polveroni e poi.....non cambia mai nulla veramente anzi peggiora
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